domenica 9 marzo 2025

Lo vuoi un caffè? 507 - COMPUTER AGE

 



Il Palazzo di Giustizia dall’esterno è sempre lo stesso.

 Un paio di parallelepipedi di cemento, metallo e vetro combinati insieme, ampie vetrate sulla facciata principale, la statua della Minerva che troneggia nel piazzale e, con sguardo truce, sorveglia quelli che attraversano lo striminzito giardinetto e il parcheggio interno.

Una volta varcato l’ingresso presidiato, non più da militi dell’Arma alle soglie della pensione, ma da guardie private che ti ricordano, gentilissime, ogni volta che l’ascensore per i piani superiori non è stato ancora sostituito e, implicitamente, ti fanno capire che lo prendi a tuo rischio e pericolo, però è come essere entrati in una scatola vuota.

I corridoi sono sempre gli stessi. Ampi, spaziosi, delimitati da un lato dalle porte degli uffici, quasi sempre chiuse, mentre dall’altro ci sono le porte delle aule di udienza deserte presidiate da solitari giudici in compagnia di spauriti cancellieri che quasi ti pregano di non lasciarli soli.

Nel corridoio un solitario collega rilegge i suoi atti e da come si guarda intorno sembra si stia chiedendo dove siano finiti tutti quanti.

Nel corridoio al pianterreno una volta affollatissimo, i banchi di esposizione dei librai sono chiusi. Non c’è nessuno in agguato pronto a proporti l’ennesimo, indispensabile, tomo sul sesso degli angeli ad un prezzo stracciato. Dietro le vetrine serrate degli incustoditi scaffali si intravedono libri che ti chiedono solo di essere liberati dalla loro prigionia.

Nel cortile dei fumatori spettrali figure si aggirano guardinghe nello spazio che le circonda accecate dalla luce alla vana ricerca di qualcuno con cui scambiare due parole.

Nel bar già dall’ingresso si ha un’ampia panoramica del bancone senza la necessità di essersi prima aperti un varco a gomitate nella calca ululante di avvocati di ogni sesso ed età che si spintonavano e sgambettavano per ordinare, consumare velocemente e tornare in aula a terminare l’udienza come un tempo. Anche i baristi hanno un’aria rilassata, quasi serena, e non più quella incazzata di chi spende un sacco di soldi dall’analista per capire come fare a rilassarsi a fine giornata dopo aver servito centinaia di caffè.

 La signora alla cassa, come al solito, non sorride e con la consueta efficienza teutonica batte gli scontrini delle ordinazioni, con l’aria annoiata e un filo stupita da tanta silenziosa tranquillità.

È possibile anche apprezzare la vastità del locale nel quale si attardano solo pochi avventori e non più alcune centinaia di indemoniati ululanti come ossessi, immersi in una cacofonia assordante di suoni, voci e rumore di stoviglie e di deliranti ordinazioni - “ un decaffeinato amaro; un caffè macchiato ma non troppo; un cappuccino con la schiuma e un cornetto integrale ma con tanta crema; un cappuccino senza schiuma con un cornetto senza zucchero che sono a dieta; un caffè bollente in tazza fredda; un caffè bollente senza la tazza…”.

E finita l’epoca dei corpo a corpo per conquistare la tazza di caffè e il cornetto di metà mattinata, dei pettegolezzi scambiati senza pudore ad alta voce su clienti e colleghi, dei consigli e dei pareri non richiesti generosamente elargiti, delle occhiate (i maschietti) fintamente distratte alle gambe di qualche bella collega e dei commenti (le femminucce) rigorosamente sottovoce sull’ultimo praticante palestrato.

È iniziata un’epoca fatta di silenzi e di vuoto, di caffè solitari e silenziosi, di assenze…

Per chi non lo avesse ancora capito siamo nel pieno di una rivoluzione epocale, siamo nell’era del digitale nella quale le nostre vite sono sempre più immateriali, virtuali, eteree… Sempre più nelle mani del Musk di turno che può farne quello che vuole a suo piacimento.

Sotto tanti aspetti si tratta di una rivoluzione che migliora il nostro modo di lavorare, le nostre prestazioni ed evita di perdere tempo ed un sacco di fatica fisica ma alla fine si tratta di una rivoluzione che finisce per isolarci sempre più invece che di riavvicinarci.

Non ricordo più da quanto tempo non incontro un collega di persona e non tramite lo schermo di un computer, da quanto tempo non scambio due chiacchiere con un amico invece di scrivergli sciatte PEC. 

Anni fa, quando nei corridoi del Tribunale, apparvero i primi chioschi informatici nei quali era possibile, utilizzando macchine antidiluviane recuperate chissà dove, consultare i registri dei depositi e le date di udienza, tutti salutammo questa novità come l’inizio di una nuova era che ci avrebbe consentito di risparmiare tempo che magari avremmo utilizzare in maniera più utile se non addirittura più piacevole.

Oggi che comodamente seduti in studio digitiamo sulla tastiera le nostre richieste utilizzando software scritti da ingegneri informatici digiuni di vita forense e riceviamo risposte inviate da cancellieri dei quali non ricordiamo più le facce, non possiamo negare che a volte ci prende una improvvisa malinconia ripensando alla caotica giornata tribunalizia di un tempo.

Non negate che anche voi qualche volta vi augurate che gli atti che state inviando telematicamente non arrivino al destinatario per avere l’occasione di chiamare direttamente la Cancelleria di turno per lamentarvi con qualcuno in carne ed ossa e avere così l’occasione di riprendere i contatti con gente che non vediamo da tempo.

Siamo nell’era del linguaggio binario che favorisce chi ha poco da dire e, ancor più, chi non ha proprio nulla da dire e che mal si concilia con una professione nella quale, invece, la parola, scritta o orale, con i suoi significati e le sue sfumature, ha sempre avuto un peso fondamentale.

Non manca molto ormai che la famosa “colleganza”, parola che racchiude in sé non solo la correttezza in aula e nei rapporti professionali ma anche il caffè inteso come momento di scambio, di confronto, di conoscenza, sarà abolita definitivamente nel nostro agire quotidiano e potremo così salutarci definitivamente senza provare alcuna nostalgia.

 

 “Lo vuoi un caffè?” - chiede quello.

“Alla memoria” - risponde l’altro.

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